La testimonianza! La RegioneTicino

03.04.2014 09:51

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LA TESTIMONIANZA
Internato da bebè,
diventa educatore
e dirige un istituto
«Sono nato come figlio illegittimo, a 14
giorni la mia famiglia, con il sostegno
del parroco e delle autorità, mi ha messo
in istituto, dove sono rimasto per 18
anni». Sergio Devecchi, oggi 66enne, è
l’unica vittima ticinese di collocamento
coatto ancora in vita e da quando è in
pensione si ingaggia attivamente per
far conoscere la storia di quegli anni in
Svizzera. «Il primo istituto in cui sono
stato si chiamava ‘Dio aiuta’, era di religione
protestante, a Pura, e vi sono rimasto
per 11 anni. Poi mi hanno trasferito
al Von Mentlen di Bellinzona e al
Santa Maria di Pollegio, prima di mandarmi
nei Grigioni, a Coira e Zizers».
Quando lo Stato ha smesso di pagare
per il suo internamento, Sergio è stato
letteralmente sbattuto fuori: «È stato
forse il periodo più tremendo. Sono restato
solo e sono tornato a Lugano,
dove ho fatto un apprendistato. Ho continuato
gli studi a Basilea e sono diventato
educatore e direttore d’istituto».
Sergio Devecchi conosce quindi gli istituti
minorili in tutte le loro sfaccettature:
«La mia motivazione era quella di
cambiare i sistemi che ho vissuto sulla
mia pelle da bambino e da giovane. Prima
del pensionamento però non ho
detto a nessuno di esser stato io stesso
un ‘bambino di istituto’: temevo le reazioni
».
Che ne pensa dell’iniziativa per la riparazione?,
gli abbiamo chiesto: «Condivido
l’idea di aprire un dialogo, ma non
so se politicamente è la scelta giusta.
Ho paura che il popolo svizzero non sia
disposto a stanziare 500 milioni per le
vittime. Se rifiutasse sarebbe uno
schiaffo enorme per tutti noi». Se
quest’uomo ha deciso di raccontare la
sua storia, è affinché la società prenda
coscienza di quanto hanno vissuto migliaia
di bambini e giovani, e sarebbe
triste ridurre il tutto a un dibattito economico:
«Non vorrei che a livello politico
si bloccasse tutto in attesa dell’esito
di quest’iniziativa. È in atto un importante
processo di rielaborazione e dialogo
che non deve essere frenato». PRI